Era un dato consolidato: dai nonni, sulla credenza, c’era sempre un vaso di vetro pieno di lupini. Personalmente avrei preferito altri sgranocchiabili, ma questo passava il convento. Niente pop-corn, roba moderna americana, niente patatine, che quelle le frigge la nonna e si mangiano a tavola, solo raramente ceci e brustoline.
Il fatto è che il nonno Ugo, classe 1908, a fare i lupini (i luven, come li chiamava lui in dialetto) tornava giovane. Anzi, tornava bambino. E cominciava a raccontare….
Lui era l’ultimo di otto fratelli, in un’epoca nella quale, appena possibile, dovevi cominciare a tirare la carretta. La famiglia si era trasferita da Carpinello a Ravenna, e i fratelli maggiori avevano già cominciato a portare a casa qualche spicciolo: uno apprendista da un calzolaio, un altro garzone in un forno, e per Ugo, che avrà avuto 6 o 7 anni, era rimasto il lavoro più semplice: i lupini.
L’anno precedente erano stati raccolti nell’orto dietro casa, poi anche lui aveva contribuito a sgusciarli, quindi li aveva messi al sole a seccare. Adesso, a distanza di vari mesi, erano da cuocere per poi andarli a vendere per le strade della città. Andavano lessati (ed a questo provvedeva la sua mamma, la bisa Minghina), ma tutto ciò non bastava. Perché i lupini sono amari, e bisogna far loro perdere quel brutto sapore. Il metodo è quello di cambiar loro l’acqua molte volte: ad ogni passaggio se ne va un po’ d’amaro e quando il lupino non è più amaro, lo puoi portare a vendere.
Cambiare l’acqua ai lupini è faticoso, perché devi rovesciare il tegame che li contiene, per togliere l’acqua vecchia, ma non far cadere fuori i legumi, quindi riempirlo con nuova acqua ma non sotto il rubinetto, che mica c’era l’acqua corrente a casa del nonno nel 1916, ma attingendola dal pozzo. Quindi tira su il secchio, portalo fino alla cantina, e qui riempi il tegame. Per un bambino, una fatica di Ercole (nome che, guarda caso, era quello del bisnonno, ovvero il babbo del nonno Ugo).
Però nella testa di un bambino la fantasia non manca. La casa del nonno era poco fuori città, verso il mare, attaccata al mausoleo di Teodorico. Lui, della tomba del re goto, aveva una gran paura. Diceva anche che nella sala al piano terreno c’erano “due teste di morto”, e penso intendesse due teschi. Insomma, non era certo un posto rassicurante. Però, oltre alle teste, c’era anche l’acqua, una bella acqua limpida che invadeva quasi l’intero pavimento. Il nonno mi assicurava che era anche leggermente corrente; forse il lento sprofondare dei monumenti ravennati aveva portato il selciato sotto il livello della falda, che in qualche modo veniva convogliata in qualche scolo nei paraggi che poi la portava al mare.
La cosa era troppo invitante: al cambio d’acqua successivo vuotò il tegamone, portò i lupini al mausoleo, e li rovesciò sul piancito di marmo. A questo punto bastava aspettare, assaggiare di tanto in tanto un lupino, fino a quando non fossero risultati dolci. Non era il massimo dell’igiene, ma la fatica diminuiva, ed in fondo, bastava che gli acquirenti non ne sapessero nulla. Occhio non vede…
Così da quel giorno la produzione dei lupini diventò un affare meno gravoso. La fatica restava nel doverli andare a vendere. La sera partiva da casa, con un secchio pieno di quei semi gialli immersi in acqua salata, e faceva il giro di varie osterie dove gli avventori, fra un bicchiere di vino e una mano a beccaccino, biascicavano i suoi prodotti.
Ormai lo conoscevano tutti, e quando entrava nei locali subito si sentiva chiamare: “tabach, dam un scud ad luven”, ragazzo, dammi 5 lire di lupini. Il problema è che lo conoscevano talmente bene che quando uno degli avventori si ritrovò a fare il cicerone per certi turisti arrivati in città, entrando nel mausoleo del re lo riconobbe subito: “Mo guerda coma t’fe a fe i luven, vigliach!” (guarda come fai a fare i lupini, traditore).
Il nonno non sapeva come fare, e la preoccupazione maggiore era che prima o poi quel signore grande e grosso, magari uno importante, che aveva scoperto il suo segreto, se lo sarebbe ritrovato davanti in una osteria, e lì lo avrebbe svergognato facendogli perdere tutti i clienti. Fu così che le sere successive si avviò al giro di vendita avvilito e impaurito. La prima sera non lo incontrò, la sera dopo nemmeno, ma la terza sera, appena aperta la porta dell’osteria “dal tre sureli”, delle tre sorelle, lo vide ad un tavolo che giocava a carte.
Qualcuno gridò: “Oh, l’è ariv ‘e tabachì di luven”, e quel signore alzò gli occhi, lo guardò severamente poi alzò una mano: “tabach, dam un scud ad luven”, facendogli l’occhiolino. Penso che quando, ormai avanti con gli anni, il nonno preparava i lupini (e mi assicurava che ormai li faceva in modo assolutamente igienico), il pensiero gli corresse sempre al quel signore che, comprendendo le fatiche di un bambino, gli sorrideva stringendo un occhio.
… E poi, dopo anni, costruì l’Hotel Columbia di Marina Romea!